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per l'articolo completo vai al sito Internet http://www.corriere.it2009-03-14 IL CASO PREFETTI Il mercato nell'angolo di Angelo Panebianco La decisione, da ricondurre soprattutto alla volontà del ministro del Tesoro Giulio Tremonti, di affidare ai prefetti il monitoraggio sulle attività del credito ha i caratteri delle decisioni importanti: per i suoi aspetti simbolici e per i suoi presumibili effetti pratici. Lasciamo da parte gli aspetti più contingenti collegati a quella decisione: la rivalità fra Tesoro e Bankitalia, la scontata opposizione dei banchieri, eccetera. Non è possibile comprendere il senso della decisione senza inquadrarla nella più generale azione intrapresa dal ministro Tremonti e senza tener conto del rapporto fra la posizione culturale che Tremonti ha autonomamente elaborato (e che, grazie al suo ruolo politico e istituzionale, è ormai un pezzo importante della "identità" del centrodestra) e le quotidiane decisioni che egli assume in qualità di massima autorità di governo dell' economia. Il ministro del Tesoro, infatti, è portatore di una visione, indubbiamente coerente, sullo stato del mondo nella congiuntura presente e di idee (fino ieri giudicate dai più non ortodosse, forse anche bizzarre) su come l'Occidente dovrebbe agire per fronteggiare una crisi che, per lui, è morale prima che economica. E' ovvio che ci sia un rapporto fra quella visione (articolata da Tremonti, oltre che in altri luoghi, nel libro "La paura e la speranza") e le decisioni prese. Certo, senza calcare troppo la mano sulla cogenza di quel rapporto, dal momento che, ovviamente, un ministro prende le sue decisioni sulla base dei vincoli e degli stimoli che la realtà gli impone. Ma un rapporto fra le due cose (la visione e le decisioni), benché allentato e mediato, comunque c'è. Per quanto riguarda le decisioni del ministro (quella sui prefetti a parte), al netto delle opposte propagande, sembra convincente la tesi di molti osservatori neutrali, secondo cui Tremonti si è mosso fin qui con equilibrio, adottando una linea di azione che mira a tamponare gli aspetti più gravi della crisi tenendo però conto dei vincoli che gravano sul Paese a causa del debito pubblico. Ciò che l'opposizione giudica colpevole inazione sembra piuttosto il frutto di un calcolo in base al quale la massima prudenza è necessaria per camminare sull'orlo dell' abisso senza precipitarvi dentro. Né sembra sbagliata la tesi di Tremonti secondo cui una crisi mondiale da indebitamento ha poche probabilità di essere curata facendo ancor più debiti. Si tratta di un' implicita critica (che mi pare condivisibile) alle scelte dell'Amministrazione Obama e uno stop anticipato a chi vorrebbe, a casa nostra, fronteggiare la crisi dilatando ulteriormente il debito. Il problema vero, a me pare, sta, più che in molte delle decisioni fin qui prese, nella visione di Tremonti e negli effetti a lungo termine che essa può esercitare sul futuro del Paese. Fulcro di quella visione è l'idea che il primato del mercato abbia condotto il mondo occidentale in un vicolo cieco, in una crisi morale e ora anche economica, e che occorra ristabilire il primato della politica attraverso regole dotate di forte caratura etica, al servizio del bene comune. Il rifiuto dell'idea che i mercati abbiano capacità di autoregolazione e che perciò sia necessaria una forte guida politica è ben illustrato dalla polemica di Tremonti contro gli "economisti " e dalla contestuale rivalutazione dei "giuristi". Tremonti ha cercato, oltre che in altri luoghi culturali, in una corrente liberale, l'ordoliberalismo della scuola di Friburgo (un gruppo di economisti e giuristi tedeschi di ispirazione liberale attivi nella prima metà del secolo scorso) i suoi referenti. E' la scuola a cui si ispira la cosiddetta "economia sociale di mercato". Essa combina meriti e una potenziale ambiguità. L'ambiguità sta nel fatto che, nell'economia sociale di mercato, l'accento può cadere, a seconda delle circostanze, sul sostantivo mercato oppure sull'aggettivo sociale. Se cade sul mercato, ne deriva che lo Stato (come nell'ispirazione originaria della scuola di Friburgo) deve limitarsi a porre regole che consentano al mercato di autoregolarsi senza produrre effetti "tossici". Se invece l'accento cade sul "sociale ", allora la politica è chiamata a svolgere, tramite le sue regole (il diritto) un ruolo assai più attivo, di controllore diretto. C'è insomma il rischio di dare vita a uno Stato interventista che spazzi via l'autonomia del mercato. Era questa la sostanza della polemica insorta nel 1949 entro la Mont Perelin Society (una celebre associazione di studiosi liberali) fra l'economista austriaco Ludwig von Mises e l'esponente dell'ordoliberalismo Walter Eucken. In ogni caso, è questo il problema italiano. Nella nostra situazione, infatti, ciò che Tremonti chiama "mercatismo" ha goduto solo di un'effimera popolarità in tempi recenti. Noi veniamo da una tradizione di controllo statale sull'economia. Anche la Costituzione non è una solida barriera. I costituenti erano anch'essi antimercatisti. Al punto di negare alla libertà economica, per la costernazione dei liberali, la qualifica di diritto fondamentale di libertà (la libertà economica è per la Costituzione solo un "interesse legittimo", subordinato alle più generali esigenze politiche e sociali). E' questa anche la ragione per cui l'appello da parte dell'opposizione alla Costituzione contro l'uso dei prefetti (lo ha notato Alberto Mingardi sul Riformista) è un'arma spuntata. Non è sorprendente, allora, che Antonio Di Pietro sia favorevole alla scelta di Tremonti: vi vede una possibilità di commissariamento indiretto dell' economia non incompatibile con la sua visione da sempre favorevole, sulla scia dell'esperienza di Mani Pulite, a un forte interventismo delle procure nella vita economica. L'elemento accomunante è la sfiducia nell'autonomia e nella capacità autoregolativa dei mercati. E' possibile che nel breve termine molte scelte del ministro Tremonti si rivelino appropriate per fronteggiare l'emergenza. Una volta superata la crisi mondiale, nel lungo termine, il rischio è che l'eredità lasciata al Paese consista più in un ritorno agli antichi vizi che nell'acquisizione di nuove virtù. Al di là e contro, certamente, le reali intenzioni di Tremonti. 16 marzo 2009 |
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